La prima edizione dei Promessi sposi ebbe un tale successo di pubblico che ben presto cominciarono a circolare numerose edizioni abusive, non approvate dall’autore. Per scongiurare l’inconveniente, Manzoni volle che la seconda edizione del romanzo (quella definitiva del 1840) comparisse in una veste che, pur assicurando la grande diffusione dell’opera, ne rendesse difficile la riproduzione. Si decise quindi di far uscire il romanzo a fascicoli illustrati, con le immagini del pittore piemontese Francesco Gonin. L’illustrazione qui presentata coglie il momento dell’incontro tra il cardinale Federico Borromeo e Lucia, che è stata appena liberata dall’Innominato.
L’opera fu incominciata nell’aprile del 1821 con il titolo Fermo e Lucia e compiuta nel settembre del 1823 con il nuovo titolo Gli sposi promessi, modificata profondamente durante l’anno 1824 e ripubblicata fra il 1825 e il 1827 in volume con il titolo definitivo I promessi sposi: Storia milanese del sec. XVIII, scoperta e rifatta da A. Manzoni ; riveduta linguisticamente dopo un periodo di soggiorno del Manzoni a Firenze (“per sciacquare i panni in Arno”) e finalmente pubblicata in edizione definitiva tra il 1840 e il 1842 a Milano.
Le vicende narrate nel romanzo comprendono un periodo di tempo che va dal novembre 1628 alla fine del 1630: lo sfondo è rappresentato dalla Lombardia, allora sotto il dominio spagnolo; la causa occasionale del romanzo – secondo quanto riferisce lo Stampa – è dovuta alla lettura di una “grida” o bando, in cui si comminavano pene gravissime a chi minacciava un parroco a non fare un matrimonio: “Questo matrimonio contrastato – avrebbe esclamato il Manzoni, secondo lo Stampa – sarebbe un buon soggetto da farne un romanzo e per finale grandioso, la peste che aggiusta ogni cosa”.
I fatti inventati cominciano la sera del 7 novembre 1628 quando avviene l’incontro di don Abbondio, curato di un paesetto del Lecchese, con i “bravi” di don Rodrigo, uno dei tanti signorotti potenti e prepotenti del tempo, il quale vuole impedire con la forza il matrimonio di Renzo Tramaglino, giovane tessitore, con Lucia Mondella, lavoratrice in una filanda. La minaccia di un uomo come don Rodrigo spaventa il timido don Abbondio, che inventa mille pretesti per non celebrare il matrimonio, ma Renzo tramite Perpetua, serva del curato, viene a conoscenza della vera causa dell’impedimento matrimoniale e su consiglio di Agnese, madre di Lucia, si reca dal dottor Azzeccagarbugli per conoscere le modalità per stipulare un matrimonio regolare evitando don Rodrigo, ma il risultato è negativo. Fallisce anche il tentativo di un matrimonio clandestino, suggerito da Agnese, per il quale sarebbe bastato pronunziare il sacramentale “sì” alla presenza del curato sia pure di sorpresa.
La situazione si complica al punto che Renzo, Lucia e Agnese sono costretti a fuggire notte tempo dal loro paese, aiutati da padre Cristoforo. Le due donne vengono ospitate in un convento di Monza sotto la custodia della badessa Gertrude, mentre Renzo è avviato con una lettera di raccomandazione presso un convento di Milano. Purtroppo Lucia sarà rapita dal convento dai “bravi” dell’Innominato, altro potente signore, cui don Rodrigo si è rivolto, non avendo ancora rinunciato al suo intento: complice del rapimento è anche la monaca Gertrude. Renzo trova la città in preda alla sommossa dovuta alla carestia; partecipa ad alcuni tumulti, ma viene arrestato; riesce poi a fuggire e a entrare nel territorio di Bergamo, dove lavorer presso il cugino Bortolo.
Lucia, rapita, si trova nel castello dell’Innominato e sta per essere consegnata a don Rodrigo; ma da questo momento la Provvidenza dal colmo del male schiude le porte al bene: l’Innominato si commuove dinanzi al candore della ragazza, e, dopo un colloquio con il cardinale Federigo Borromeo, lascia libera Lucia, che viene affidata alle cure di donna Prassede e don Ferrante; Agnese intanto è tornata nella sua casetta.
Si assiste poi alla calata dei Lanzichenecchi, venuti in Italia perchè assoldati nella guerra di successione di Mantova e Monferrato, e alla fuga della gente dai paesi in cui si prevede il passaggio delle truppe: Agnese, Perpetua e don Abbondio saranno ospiti dell’Innominato nel suo castello. Alla guerra segue la peste, che varca anche i confini dello Stato milanese; ne è colpito Renzo che poi, guarito, parte alla ricerca della sua Lucia, e la ritrova nel lazzaretto di Milano, anche lei in via di convalescenza: nel lazzaretto c’è don Rodrigo, colpito dal crudele morbo, e vi si trova come confortatore di sventure anche padre Cristoforo, il quale scioglierà il voto fatto da Lucia durante la terribile notte trascorsa nel castello dell’Innominato; alla fine viene celebrato proprio da don Abbondio il matrimonio fra i due promessi sposi.
Quando il Manzoni scriveva questo romanzo, il suo mondo spirituale era definitivamente precisato e animato – come riconosce il Momigliano – da un giudizio armonico e complesso. Gli uomini in genere non sono buoni a causa dell’egoismo, pochi sono quelli capaci di un’umiltà semplice, pronta a tutte le prove: un’ora di gioia degli spiriti candidi, un’ora del loro dolore valgono cento di quelle vite; l’angoscia dei cuori innocenti li avvicina a Dio; il dolore, infatti, è il sale della vita: non c’è bisogno di cercarlo, come fanno gli spiriti ascetici. Il dolore ci viene sempre incontro, se non è il dolore nostro è quello del prossimo; Federigo e Cristoforo non hanno dolori propri, ma quelli degli sventurati da soffrire e da lenire; e il dolore che alleviano dà senso alla loro vita o la redime.
Qui sta proprio il nucleo del romanzo, nelle parole che padre Cristoforo dice nel lazzaretto a Renzo e Lucia: “Ringraziate il Cielo che v’ha condotti a questo stato non per mezzo delle allegrezze turbolente e passeggiere, ma co’ travagli e tra le miserie per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla” (cap. XXXVI); e anche nella chiusa stanca del romanzo: “Dopo un lungo dibattere e cercare insieme conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono o per colpa o senza colpa la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore” (cap. XXXVIII).
Questo è il senso cristiano del romanzo: anche qui c’è la “provvida sventura”, come per Napoleone, Ermengarda, il Carmagnola. Il dolore ha una parte preponderante, e nulla è così profondo in questo romanzo come ciò che scaturisce da questo sentimento. Non a caso, afferma il Sapegno, ” I Promessi Sposi sono stati chiamati il romanzo della provvidenza: l’intervento di Dio negli accadimenti piccoli e grandi è in ogni momento così forte che sembra di poterlo toccare con mano: è una presenza paterna, amorosa, severa, che palpita in ogni cosa”.
Ciò non impedisce al Manzoni di essere alquanto pessimista nella visione della vita, come si può ricavare da due espressioni: “E per questo si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene e così si finirebbe anche a star meglio” (cap. XXXVIII); “La vita non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto” (cap. XXII). Questa animazione religiosa che vive nel romanzo, è uno dei problemi più discussi, se essa debba essere considerata giansenistica o cattolica; in realtà nel Manzoni ci appare così vivo il senso universalistico della Grazia, così chiara e ferma l’asserzione della libertà umana, che si deve riconoscere che quel tanto che rimase nella coscienza dello scrittore appartiene esclusivamente al giansenismo morale, non teologico, e che il pensiero religioso del Manzoni si definisce nel senso del cattolicesimo ortodosso.
Anche la storia, che serve come materia fondamentale dell’opera poetica, non è qui nuda cronaca, ma storia ricostruita criticamente, integrata psicologicamente e valutata, secondo una precisa filosofia di natura etico-religiosa: “Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s’usa e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale da esserne pago ogni intelletto più critico” (cap. XI).
E’ proprio con il Manzoni che si diseroizza la storia: pur nello sfondo di grandi avvenimenti (carestia, guerra, peste) che turbarono la vita milanese del Seicento, e personaggi di statura storica, come il cardinale Federigo Borromeo, la monaca di Monza, i bravi, gli Spagnoli, i veri protagonisti del romanzo sono due giovani di modeste condizioni, attraverso i quali la democrazia rivoluzionaria diventa cristiana: entra così il popolo nell’arte, non più sciocco, gaglioffo, decorativo, ma protagonista con tutta la sua profonda e dolorosa umanità: un popolo oppresso da leggi ingiuste, lasciato nell’ignoranza, preda di ingiustizie, di epidemie, di pregiudizi, dissanguato anche dal dominatore straniero; i poveri non sono vili, la loro energia morale sta nell’umiltà e il contrasto ideale è fra umili e potenti, anzi fra umili e prepotenti, sicchè i problemi del Seicento sono quelli stessi dell’Ottocento e il grido del contadino oppresso del Seicento è quello stesso dell’italiano oppresso dell’Ottocento: il contrasto fra oppressori e oppressi nel romanzo non è solo il contrasto storico tra Spagnoli e Italiani, ma anche il contrasto politico-risorgimentale tra Austriaci e Italiani.
Da qui deriva la coscienza manzoniana delle rivendicazioni economiche degli umili, ancora embrionale, ma rivoluzionaria e fortemente condizionata alla sua formazione etico-religiosa; da qui nasce quel concetto pessimistico della giustizia, condotta pur sempre dagli uomini: “La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro” (cap. I); “A saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo e nessuno è innocente” (cap. III); “Contro i poveri c’è sempre giustizia” (cap. VII); “In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore, eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi parrebbe la vittima; eppure in realtà era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo … voglio dire così andava nel secolo decimosettimo” (cap. VIII).
Da cristiano e cattolico ortodosso, il Manzoni non può accettare il principio della rivoluzione cruenta per le rivendicazioni sociali, ma riconosce con spirito cristiano la necessità di realizzare un’ampia giustizia tra classi diverse nel consorzio umano: ne fanno fede le pagine dei capitoli XII e XXVIII; infatti il romanzo non si limita all’odissea di Renzo e Lucia, ma è la storia degli errori, delle debolezze, delle angosce di un’età che vede la sommossa nata da una carestia aggravata dall’ignoranza dei più responsabili, la peste, nata dalla carestia e dall’invasione, ma aggravata dall’ignoranza e dall’insensibilità umana, l’iniquità della giustizia alleata alla prepotenza, l’oppressione spagnola.
La natura è presente nel romanzo come paesaggio, come ambiente, sempre in armonia col tono un po’ dimesso del racconto: “Quel ramo del lago di Como…” (cap. I) o “Addio, monti sorgenti…” (cap. VIII) sono come una grande “ouverture”, in cui l’autore crea e anticipa nel tono, nel colore, nell’accento l’atmosfera, l’ambiente del romanzo o dell’animo umano; o l’inizio del cap. IV (“Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte…”) che è come scrive il Russo tutto un quadro interiore; il cielo e la terra di Lombardia sono nell’anima, nelle parole, nei gesti dei personaggi, nella concretezza dei fatti.
L’amore che è il motivo, che spiega anche la ragione del titolo, non è il tema fondamentale: è presente nel modo con cui lo può concepire e sentire il poeta, il quale appunto preferisce fare intuire e non descrivere questo sentimento. Sono invece sempre presenti l’ironia, cioè quel particolare modo di rappresentare dicendo il contrario di quello che si intende, l’umorismo, in cui la polemica manzoniana si attenua nella rassegnazione di un amaro sorriso, il tono allegro, con il quale il Manzoni si diverte e soprattutto ci diverte.
Ma il romanzo è anche ricco di massime e di sentenze sparse qua e là, di battute, di richiami, di similitudini: “Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia…” (cap. XI), dove il ritmo sentenzioso sul segreto è trasfigurato da una spassosa ironia; “Vi son dei momenti in cui l’animo, particolarmente, de’ giovani, è disposto in ogni maniera…” (cap. X), in cui il senso elegiaco d’abbandono è approfondito nella fresca similitudine del fiore appena sbocciato; “E’ una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana…” (cap. X), in cui emerge l’apologia del cristianesimo e la comprensione del dramma umano.
Ci sono scene toccanti, come quella della “madre di Cecilia” (cap. XXXIV), uno degli episodi più noti del romanzo, che per essere inteso nella sua pienezza deve essere sentito come evasione tragico-lirica dall’atmosfera realistico-drammatica dello spettacolo della peste, o scene allegre – di un’allegria patibolare – come quella del brindisi di Renzo insieme con i monatti sul carro carico di cadaveri; scene altamente drammatiche, come quella di Tonio, cui la peste ha tolto il vigore del corpo e della mente, che con un sorriso sciocco non fa che ripetere: “A chi la tocca, la tocca” (cap. XXXIII); o quella spassosa, di una comicità allegra, senza calchi metaforici, quando don Abbondio nella grande scena corale della calata dei Lanzichenecchi e nel drammatico movimento della massa si crea dappertutto pericoli immaginari (cap. XXIX).
E non parliamo di personaggi, che sono ormai divenuti popolari, come don Abbondio, pauroso e umoristico, Perpetua, la serva-padrona, Agnese, la vedova saccente, fra Galdino, Bettina, Menico, il Griso ecc.: una galleria umana, necessaria per costruire il mondo ideale o immaginario del romanzo, che ha anche un’originalità: la famosa introduzione in corsivo L’Historia si può veramente deffinire …” con l’ortografia in stile secentesco che il Manzoni dice d’aver ricopiato fino all’impossibilità di decifrare uno scarabocchio: “Perchè non si potrebbe prender la serie dei fatti da questo manoscritto e rifarne la dicitura?”. Nella finzione del manoscritto si nasconde tanta ironia manzoniana; infatti in questo romanzo “si trova il poema della giustizia di Dio, ma anche la satira dell’ingiusta giustizia degli uomini” (Russo); un’ironia non volteriana, ma bonaria e stringente, inesauribile.